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Medea. Voci

by Christa Wolf



La confessione della nostra pena, da lì dovremmo cominciare.


Così le trottammo dietro confusi nel palazzo del padre, che peraltro era tutto di legno, decorato artisticamente con intagli, certo, ma da noi non sarebbe stato chiamato palazzo.


La sera se ne stanno seduti presso i fuochi da campo e cantano di Giasone l'uccisore del drago, certe volte passo di là, non li disturba, credo che non sappiano nemmeno che sono io quello di cui cantano le gesta. Una volta Medea stette ad ascoltare quei canti insieme a me. Alla fine disse: di noi hanno fatto ciò di cui avevano bisogno. Di te l'eroe, a di me la donna malvagia. Così ci hanno allontanati l'uno dall'altra.


Prima o poi un uomo deve decidere ciò che vuole, e deve anche poter dimenticare ciò che gli ormai inutile e soltanto di peso.


[...] o dovevamo semplicemente ripartire, lasciare al suo posto il Vello, quella stupida pelliccia che mi era già venuta a noia, [...]


E corre per le strade come un temporale, e grida quando è arrabbiata e ride forte quando è allegra.


Si concede troppi vuoti di memoria.


Mi infuriai quando mi accorsi di quant'era alta la sua febbre. Di come si sottraeva soltanto grazie alla malattia.


Io giurai a me stessa, costui dovrà avere rispetto per me.


Vive nascosto dentro costruzioni mentali minuziosamente edificate, che considera la realtà, ma che non hanno altro scopo che sostenergli la coscienza si sé facile a vacillare.


Non sta bene offendere gli dèi con un'eccessiva tristezza per i morti, come fanno i corinzi con nostro stupore; del resto a loro manca anche la certezza che le anime dei morti, dopo un periodo di riposo, risorgeranno in un nuovo corpo.


Si disprezza e ci disprezza perché il suo interesse si fa schermo del nostro, lo sappiamo, e lui sa che lo sappiamo.


Quando corsi per il campo su cui le donne folli avevano sparpagliato le tue membra fatte a pezzi, quando corsi singhiozzando per quel campo nell'oscurità che calava e ti raccolsi, povero fratello scorticato, pezzo dopo pezzo, osso dopo osso, allora smisi di credere. Come potremmo mai ritornare su questa terra in nuova forma. Perché le membra di un uomo morto sparse sul campo dovrebbero rendere fertile questo campo. Perché gli dèi, che pretendono continuamente da noi prove di gratitudine e di sottomissione, dovrebbero farci morire per poi rispedirci nuovamente sulla terra. La tua morte mi ha spalancato gli occhi, Apsirto. Per la prima volta trovai consolazione al non dover vivere sempre. Allora fui capace di allontanare quella fede nata dalla paura; meglio, essa mi disgustò.


Adesso coi ricordi mi si sono risvegliati anche i sogni. Notte dopo notte il mare torna a schiumeggiare alto, notte dopo notte torna a inghiottire le tue ossa, notte dopo notte verso finalmente le lacrime di cui, allora, ti rimasi debitrice.


Appena le donne saranno equiparate a noi, ci saranno superiori. (Catone)


Medea rise. Dopo gli occhi, la si riconosceva dalla risata.


Quando da loro [i Colchi] nasce un bambino, viene da pensare che il suo unico obbligo sia stare al mondo, e che, non foss'altro che per questo, gli spetti tutto l'amore e tutta la dedizione.


Lei ritiene che le idee si siano sviluppate dai sensi e che non dovrebbero perdere quel legame.


Non c'è menzogna troppo grossolana a cui la gente non creda, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci.


Io non vivo per seguire la mia voglia. Sì, dice Medea. Lo so. Questa è la vostra disgrazia.


Allora lui fa una smorfia come se avesse mal di denti, e chiede con grande sfacciataggine se non assomigli di fatto a una giungla la vita della nostra bella città di Corinto. Se sono in grado di menzionargli una sola persona che sia arrivata in alto senza seguire le leggi della giungla.


Quel che noi a malapena pensiamo, loro lo dicono.


Voleva persuadermi che non dovevo ignorarle, le ombre che tanto spesso cadevano sulle mie luminosissime giornate, che non dovevo correre via, quando in un determinato posto del cortile del nostro palazzo, vicino al pozzo, mi assaliva regolarmente una tale orribile paura, che avevo dovuto imparare a evitare quel posto. Si può vivere, la maggior parte della gente ignora con quante privazioni si possa vivere, ma poi non era stato solo quel posto, poi era stata tutta l'area intorno al pozzo, infine tremavo davanti a tutto il cortile del palazzo, ed ero diventata molto ingegnosa nell'accampare scuse e pretesti che mi aiutassero a evitare di metter piede su quel cortile che tutti attraversano più volte al giorno.


Non ha voluto distogliermi dalla mia paura, lo so, ha detto, è la stessa cosa che se ti mancasse un braccio o una gamba, solo che nessuno sa vedere cosa ti manca.


Gli uomini vogliono convincersi che la loro sfortuna viene da un unico responsabile, di cui ci si può sbarazzare facilmente. (“La violenza e il sacro” di René Girard)


Questa è la mia sorte, dover assistere a tutto e non poter fare nulla, come se non avessi le mani. Chi usa le mani, deve sporcarsele di sangue, che lo voglia o no.


A questa donna manca qualcosa che tutti noi corinzi succhiamo insieme al latte materno, non ce ne rendiamo più conto, solo il confronto con i colchi e soprattutto con Medea me lo ha fatto scoprire, è un sesto senso, un fiuto preciso per i mutamenti minimi dell'atmosfera intorno ai potenti, da cui noi, ciascuno di noi, dipendiamo per la vita e per la morte. Una sorta di spavento perenne, le dico. Tanto che il vero spavento, il terremoto, è stato vissuto da alcuni come una liberazione. Siete gente strana, dice, e io: anche voi. Ridiamo.


Le donne di Colchide qui fanno i lavori più umili e tuttavia camminano a testa alta come le mogli dei nostri funzionari di rango superiore, e la cosa più singolare è che non sanno fare diversamente.


Medea mi dice se mi sono già accorto anche io che in ogni male c'è un granello di bene.


Non sono ancora vecchio, perlomeno così dice Aretusa, ma ero arrivato al punto da avere amici solo tra gli astri, non più tra gli esseri umani.


E' una di quelle donne che, qualora la terra dovesse fermarsi, la rimetterebbe in moto.


Era la prima volta che parlavo con una straniera dello stato della nostra città, andai ben oltre e le chiesi dove vedeva l'origine della nostra decadenza. La risposta per lei era evidente. Nella vostra presunzione, disse. Vi sollevate sopra tutto e tutti, ciò altera il vostro giudizio sul reale, e anche su come siete realmente. Aveva ragione, e la sua frase mi risuona dentro ancora oggi.


Medea, dico, se non sacrificano i prigionieri, si cercheranno un'altra vittima. Lo so, dice. Sai anche, dico, quando possano essere crudeli gli esseri umani. Sì, dice. Ma abbiamo una vita sola, dico.
Chissà, dice.


Forse è un decreto della provvidenza che ci colga l'euforia quando stiamo davanti all'abisso.


Agameda ritiene che sia una forma di presunzione non rispondere all'odio con l'odio.


Poi probabilmente è passato altro tempo. Adesso le grandi porte della sala vengono aperte. Adesso il messo che aspettava di entrare riceve la notizia. Adesso se ne va, viene qui. Adesso mi coglie la nostalgia di tutti i giorni che mi ruberanno. D'ogni levar del sole. Dei pasti coi bambini, degli abbracci con Oistros, delle canzoni che canta Lissa. Di tutte le gioie semplici, che sono le uniche durevoli. Adesso me li sono tutti lasciati alle spalle.


Ora me ne sto qui seduto e sono costretto a dirmi che proprio su questa capacità di sopportare l'insopportabile, e tuttavia continuare a vivere, e tuttavia continuare a fare ciò che si è abituati a fare, proprio su questa sinistra capacità si fonda la stabilità del genere umano.


Io, tra tutti questi mondi lontani, solo sul mio mondo che tanto meno mi piace quanto più lo conosco.


Tanto più esamino la mia anima. Tanto meno desidero ammettere ciò che l'esame mi prova.


Mi parve come se quel silenzio nascondesse in sé una specie di tristezza e di giustizia per tutte le vittime che gli esseri umani ciecamente si lasciano dietro quando sono sulla strada sbagliata.


...gli uomini, esclusi dal generare la vita che è esperienza esclusivamente femminile (esclusi dal segreto), trovano nella morte un luogo ritenuto più potente della vita in quanto la vita toglie. (“Nonostante Platone” di Adriana Cavarero)


Gli dèi vogliono insegnarmi a credere di nuovo in loro? Non posso che ridere. Adesso gli sono superiore.


E pare che i corinzi non siano ancora soddisfatti. Cosa vanno dicendo. Che io, Medea, avrei ammazzato i miei figli. Che io, Medea, mi sarei voluta vendicare dell'infedele Giasone. Chi potrebbe mai crederci, chiesi. Arinna disse: tutti.