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Un indovino mi disse

di Tiziano Terzani



Viaggiare è un'arte!


L'America e la nuova Asia confondono il PNL con il QI!


Tutti dobbiamo chiederci – sempre – se quel che stiamo facendo migliora o arricchisce la nostra esistenza.


Una casa di legno e di carta.


Religioso non è Spirituale


La verità è che uno a cinquantacinque anni ha voglia di aggiungere un pizzico di poesia alla propria vita.


Il giornalismo è ormai dominato, come molte altre professioni, dall'elettronica. Computer, modem, velocità hanno un ruolo preponderante; la brevità e la tempestività delle immagini televisive trasmesse via satellite hanno stabilito nuovi standard, e il giornalismo stampato, invece che puntare sulla riflessione e sul personale, non fa che correre dietro e cercare di imitare l'imbattibile immediatezza, e con ciò anche la superficialità, della TV.


E' un aspetto, questo, dello strano mestiere del cronista che non cessa di affascinarmi e, al tempo stesso, di inquietarmi: i fatti registrati non esistono. Quanti massacri, quanti terremoti avvengono al mondo, quante navi affondano, quanti vulcani e quanta, quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure, se non c'è qualcuno che raccoglie la testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia una traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenza, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. E' una triste constatazione; ma è così ed è forse proprio questa idea – l'idea che con ogni piccola descrizione di una cosa vista si può lasciare un seme nel terreno della memoria – a legarmi alla mia professione.


I veri Illuminati, come Buddha e Cristo, non amavano fare miracoli tanto per convincere i miscredenti. Era ovvio che li sapevano fare, ma ci ricorrevano solo quando era assolutamente necessario.
A me è sempre piaciuta la storia di Buddha che arriva a un fiume, la gente gli chiede di traversarlo camminandoci sopra, e lui, indicando una barca, dice: "Con quella è più semplice".


C'era, fra il colore della sua pelle e quello della sua tonaca, una profonda contraddizione, così come c'era in quella della sua posizione, seduto per terra con le gambe incrociate. Sentivo in lui, cos' occidentale pur in panni asiatici, qualcosa di stonato, di fuori posto, e mi immaginavo come un giorno, circondato da quei monaci, suoi confratelli solo di nome, a parlare una lingua che non è la sua, in un posto in cui non un suono o un odore è quello di casa, Chang Choub potrebbe sentirsi terribilmente solo, solo come mai, alla fin di una vita di cui avrebbe da chiedersi, come forse già gli capita di fare, se non l'ha spesa perseguendo la meta di altri, dietro un'illusione che non era nemmeno la sua.


La storia dietro ogni oggetto era quello che ci sarebbe rimasto. Dell'oggetto in sé non ci sentivamo che i temporanei custodi.


Lentamente mi accorgevo di ritrovare il gusto del viaggiare, il piacere di lasciarsi andare ai posti, alla gente. Facendo questo mestiere di giornalista uno è spesso costretto ad arrivare in una città, andare a vedere un paio di persone, scrivere e ripartire. Ovviamente, per capire una situazione non basta andare a intervistare un ministro, un generale, un esperto... e comunque anche loro dicono sempre quello che debbono dire. L'importante è starci assieme, farli parlare di altre cose e aspettare che nella coda di un discorso anche loro dicano quel che pensano, rispondano a quel che non si è chiesto... che è poi la chiave di tutto. Ero stanco di correre di qua e di là in cerca di citazioni per rimpinzare un articolo.


"Ti stavo aspettando!" disse l'uomo alzandosi. Io non avevo aperto bocca, ma trovai che, per un veggente, quello era un modo perfetto di presentarsi.


Se un giorno non ne posso più di fare il giornalista, mi dicevo, inventerò una nuova religione. In Giappone ogni giorno nasce un nuovo dio! Un tenutario di bagni pubblici, ex poliziotto, una donna di casa dicono d'aver avuto una visione e subito trovano dei seguaci. Il fenomeno è interessante. Mi fossi scoperto ad annoiarmi avrei fatto anche quello!


Già, il coraggio, cos'è? A me era sempre parso la forza di superare la propria indicibile paura.


Kaka disse che i segni della mano non restano uguali per tutta la vita. Cambiano con il passar del tempo e con loro cambia anche il destino. Mi fossi messo a meditare, avrei potuto vedere io stesso come la mia mano mutava.


Se ha ragione la donna di Bangkok che guardava il mio neo, io finirò i miei giorni in una terra straniera. Peccato, perché c'è qualcosa di rassicurante nel morire là dove si è nati, in una stanza di cui si conosce l'odore, lo scricchiolio della porta, la vista dalla finestra. Morire là dove sono morti i propri genitori, i propri nonni, là dove nasceranno i propri nipoti è come morire di meno.
I cinesi l'avevano capito e il culto degli antenati è sempre stato la loro sola, vera religione. All'origine c'era l'antichissima abitudine di avere nel fondo delle caverne un posto in cui venivano sepolti i morti e in cui le donne partorivano. Si creava così un ciclo; il nuovo era come prendesse vita dal vecchio. La reincarnazione, appunto.


Il semplice fatto di aver formulato la minaccia rende la minaccia verosimile e con ciò angosciante. Molto di più della notizia di poter vincere un terno al lotto! Il positivo entra ed esce dalla testa. Il negativo lascia un dubbio strisciante, un'inquietudine sorda; perché la paura è il fondo della condizione umana.


Ebbi l'impressione di essere entrato in un manicomio e che bisognava fare attenzione a non irritare i matti.


Bisogna aspettare che cali la sera e, senza far rumore, andare lungo i muri, salire su per una delle colline, sedersi sulle vecchie pietre e stare in silenzio a guardar l'acqua che scorre sotto il ponte di ferro, quasi un mormorio, come la brezza; ma la si sente: la voce della storia. Malacca è uno di quei posti. Pieno di morti. E i morti bisbigliano. Bisbigliano in cinese, in portoghese, in olandese, in malese, in inglese. Alcuni bisbigliano anche in italiano, altri in lingue che non si parlano più, ma poco importa: le storie che i morti di Malacca raccontano paiono non interessare più a nessuno.


Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare. Darsi tempo, stare seduti in una casa da tè a osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andar a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una ginestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare.


E' così che ragionano i cinesi, ovunque sono emigrati: i paesi in cui vivono sono per loro come dei tavoli da gioco.


"Viaggiare ha senso solo se si torna con qualche risposta nella valigia", attaccò Leopold. "Tu che viaggi tanto, l'hai trovata?"


La vita: orge di dolore e orge di felicità, il tutto sotto i grandi sorrisi di pietra, sotto gli occhi socchiusi di quelle misteriose facce nella giungla.


La mattina del 20 aprile 1975 avevo pianto di gioia nel vedere i carri armati dell'Esercito di Liberazione entrare a Saigon: finiva la guerra e i vietnamiti diventavano padroni del loro paese. Dieci anni dopo, tornando, avevo pianto di disperazione nel vedere come i comunisti avevano sprecato la loro grande, storia occasione di fare del Vietnam un pese davvero liberato. Ora ero ancora più triste. Il fallimento era dappertutto. Era nella vita di ciascun vincitore.
Durante gli anni della guerra ero rimasto impressionato da alcuni rivoluzionari che avevo conosciuto: erano poveri, duri, ma dediti a una causa nella quale credevano. Alcuni mi avevano fatto pensare a dei santi moderni. Anche loro in vent'anni avevano perso l'alone ed erano diventati figure comuni, banali. Uno si era messo in società con dei comunisti francese e trafficava nell'import-export. Un altro, come lui stesso diceva, avendo almeno conservato l'ironia, faceva "la tratta dei gialli": reclutava operai vietnamiti per società edili coreane! Uno, che era stato una mitica figura di Vietcong, mi disse che la tragedia era stata l'aver vinto la guerra: l'avessero persa, sarebbero stati costretti ad adattarsi, a cambiare e così sarebbero migliorati. I vincitori invece credono di non aver nulla da imparare.
Gli detti ragione. Se la vittoria comunista era servita a mettere in piedi la società che mi vedevo attorno, allora tanto valeva che avessero vinto gli altri! Quella società avrebbero saputo farla meglio!


Povero Vietnam! L'unica modernità che questo paese sembra aver conosciuto è quella della guerra: le armi, gli aerei, i missili sono cose di questo secolo; tutto il resto appartiene ancora al passato.


Il passaggio fuori dei finestrini era di una commovente bellezza. Altrettanto commovente era quello umano tutto attorno.


Seduto a poppa, mi chiedevo quanto ancora potrà durare un mondo così, retto esclusivamente dai criteri incolti, disumani e immorali dell'economia.


Risentii il tintinnare divino delle campanelle sulla pagoda in cima alla collina e, fra le sagome degli alberi che si stagliavano sulle mura bianche dei monasteri, vidi l'ombra di un passante fatta dalla luna. Camminava lento, con la testa appena un po' curva, come chi, assorto negli inutili pensieri del senso della vita, segue un funerale. Ero io.


Un altro piacere veniva dallo sforzo. Il fatto di essersi impegnati a rispettare le varie proibizioni acquistava, con il passare dei giorni, sempre più valore e il mantenere l'impegno dava la sensazione di acquisire una forza. John diceva che quello sforzo serviva a "creare una base di moralità" per lo stadio successivo della meditazione. Ed era vero che lentamente, proprio per aver fatto lo sforzo, uno sentiva di meritarsi qualcosa come ricompensa. "Negli ultimi giorno capirete. Tutto avrà un senso."


Quel che mi è sempre piaciuto del buddismo è la sua tolleranza, l'assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali, invece, ci portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso di colpa.